Ombrelli di carta

Ed eccomi di nuovo di ritorno, dopo una lunga assenza dovuta ai soliti problemi tecnici (questa scusa sta cominciando a non esser credibile).
Quello che vi posto oggi è un altro racconto che ho scritto come compito sempre per il corso di scrittura creativa. Devo ammettere che mi ci sono affezionato parecchio perché.. beh.. lasciamo i commenti in fondo.

Come tanti altri racconti nemmeno questo, purtroppo per voi (mannaggina), è comico. Anche se a tratti può essere ironico (sappiamo tutti la differenza tra comico e ironico, vero? VERO?!). La consegna di questo esercizio era quella di descrivere un evento che mi era successo recentemente. Ammetto di aver sforato, inconsciamente, la consegna perché doveva essere un fatto oggettivo raccontato in modo oggettivo.
Ma vabbé.. sticazzi!

Dunque ci ritroviamo in fondo che faccio la mia solita “spiega”.. 

Un sole ancora invernale ci illumina mentre andiamo senza fatica. Tanto siamo in discesa. Gli universitari ci scansano per lasciarci passare con finta noncuranza. Si spostano di poco continuando a parlare o a guardare il cellulare, ma ogni volta almeno uno sguardo di sfuggita glielo danno. Subito viene da pensare ‘ma perché guardano? Cos’è che li affascina così tanto?’. Associo subito il loro sguardo al suo pensiero, sapendo che lo infastidisce venir fissato. Lo credo perché ai bambini gli urla spesso: “Ma cosa c’hai da guardare?”. Penso lo faccia solo con i bambini perché degli adulti in qualche modo ha timore.
Penso a queste cose. Ma alla fine mi faccio scendere da solo dal mio piedistallo di superiorità morale. Mi dico che non sono da meno. Mi dico che lo guarderei anche io, per una ragione o per l’altra, se mi passasse vicino.
Continuo a camminare tenendolo con una mano sola cercando soltanto di non farlo andare storto dato che ha una gomma sgonfia.
Tanto siamo in discesa.

Marino è il suo nome, ha undici anni ed è tetraplegico dalla nascita. ‘Poveraccio’, o una cosa simile, avrete pensato tutti. Beh, è lo stesso identico errore che farei io se me lo vedessi passare vicino. Un ragazzino in carrozzella visibilmente provato. La gente gli parla come se fosse un bambino deficiente. Lui fa la cosa migliore che potrebbe fare. Li prende per il culo… ma quando sono già lontani.

Spingo la carrozzella giù per Via Balbi fino alla Nunziata. Attraversiamo senza problemi quella zona trafficata e saliamo fino Via Cairoli. Intanto parlo a ruota libera delle mie decisioni, ma soprattutto delle mie indecisioni. L’università è una di quest’ultime. Io parlo, ma lui mi risponde solo quando dico cagate per scherzare. Ma non posso dire solo cagate perché altrimenti ride troppo e quando ride troppo è facile che si caghi addosso. Sembrerò insensibile, ma non è in cima alla mia lista di cose piacevoli da fare pulire una mattonata di merda. Si perché, nonostante sia magro come un chiodo, mangia come un elefante… e caga in proporzione.
Incrociamo il suo vecchio affido educativo che lo saluta alla maniera militare. Evidentemente non sa che Marino non lo sopporta. Il soldato aveva deciso di smettere di tenerlo senza digli nulla. Oltre al fatto di essere un irritante figlio di papà. Così fingiamo che ci insegua e scappiamo da lui facendo tutta la strada di corsa fino Via Garibaldi. Lui ride divertito, ma non troppo. Il giusto.
Riprendo fiato. È leggero, ma il suo mezzo no. Mentre respiro mi viene un pensiero stupido.
“Vuoi vedere dove abito?”
Ovviamente mi risponde di si. Oramai sono un suo punto di riferimento e mi fa piacere dargli l’idea di saper dove trovarmi se ne avesse avuto bisogno. Arrivo fino a Palazzo Rosso passando affianco i tavolini dei bar, costosissimi per i turisti, e imbocco senza preavviso un vicolo sulla destra. Un caruggio, se vogliamo essere precisi. Svolto all’improvviso imitando il rumore di una macchina da corsa che sterza per fargli uno scherzo. Del tipo: ‘Ah ha! Non te l’aspettavi che girassi qui, eh?’. Percorro velocemente la discesa ed arrivo in un battibaleno davanti al mio portone.
Poverino. Se ci penso ora mi viene in mente che non gli ho dato nemmeno il tempo di obiettare.

La bella Genova. Un’anziana aristocratica che cerca di mantenere una dignità reggendosi le mutande che cascano. D’altronde siamo conosciuti anche per le prostitute.
Prima meridionali, ora africane, le bagasce piantonano diversi vicoli del centro storico. Tra cui quello in cui abito. Figure in piedi che al massimo possono salutarti con un sorriso che tenta all’ammalio. Inoffensive.
Ma spiegatelo a voi ad un ragazzino tetraplegico che ha paura del mondo.

Lo sento, seduto davanti a me, impietrito. Gelato. Mi aspettavo un commento provocante dei suoi come “Che casa di merda!”, ma non dice nulla. Confuso gli chiedo se vuole andare. Mi accenna un si con un tremolio della testa. Se la mia ingenuità non fosse bastata fino a quel momento di certo la scelta successiva sarà quella che darà il colpo di grazia.
Scendo ancora il vicolo fino a sbucare in Via della Maddalena. Se conoscete le canzoni di De André è un po’ come dire Via del Campo. Cammino con passo sostenuto, ma a Marino non basta che sia tale e mi dice di accelerare.
All’ombra dei palazzi lo spingo sulle pietre rettangolari che fanno sussultare la carrozzina. Scansiamo prostitute allegre, come allegri sono i conduttori televisivi, che non ci degnavano di uno sguardo. Passiamo negozi dei pachistani e le sartorie abusive per raggiungere la fine. Qualche metro e sbuchiamo in Via San Luca. Salvi.
Gli chiedo se andava tutto bene e lo tranquillizzo un attimo. Torna a sorridere. Fa pure qualche battuta sulle prostitute.
Ma quel che è fatto è fatto.
Manca un quarto alle sette e decidiamo, con falso accordo, di incamminarci verso casa. Finiamo San Luca e saliamo Via delle Fontane per ricollegarci a Balbi. Cammino sereno per far in modo di arrivare alle sette in punto. Ora siamo in salita e mi servono entrambe le mani. Marino mi dice di correre. Penso al giro che gli ho fatto fare e che lo ha spaventato. Farlo divertire ancora un po’ è il minimo. Comincio una corsetta, ma mi intima di andare più veloce. Rispondo di non tirare troppo la corda, siamo comunque in salita. Mi risponde urlando che deve andare a pisciare. Sgrano gli occhi e sgommo. Se l’ilarità lo fa cagare, la paura lo fa pisciare.

Arrivo quasi in cima, giro a sinistra e scendo il vicolo di fretta. Volto ancora a sinistra e citofono. La sorella mi apre.
Dentro l’ascensore, premo il piano e aspettiamo. Marino mi grida che non ce la fa. Lo incoraggio a trattenerla.
Si aprono le porte scorrevoli e davanti a noi quella di casa. Ci fiondiamo dentro. Ma è la prima volta che vengo qui.
“Al bagno, al bagno!” mi urla. “Dov’è?” gli urlo io.
Faccio il corridoio dopo che me l’ha indicato ed entriamo. Perdo qualche secondo a trovare l’interruttore della luce.
“Dai dai!”
Lo trovo. L’accendo. Lo slaccio dalla carrozzella.
Faccio per alzarlo, ma mi dà delle pacche sulla schiena in segno di protesta.
“Il riduttore!” strilla, mentre mi indica quello strano seggiolone bucato da mettere sopra la tazza del cesso.
Scatto verso la vasca, lo afferro, mi volto e lo faccio sedere.
“Veloce!”
Mi tiro su le maniche mentre mi giro.
“Forza che mi sto… oooooooooh”
Emette quella flebile vocale accasciandosi lentamente fino ad arrivare con il petto sulle gambe.
Gli prendo delicatamente la testa con entrambe le mani affettuosamente e gli chiedo:
“Fatta?”
Mi fa cenno di si.

Quello che succede dopo è abbastanza irrilevante. Lo cambio velocemente, arriva la madre, le spiego cos’è successo e mi risponde che non fa niente. Alla fine mi ritrovo già in ascensore da solo con i miei pensieri. A concordare con me stesso che l’ironia provocante di Matteo è una fragile difesa. Che appena il problema si presenta non può far altro che pisciarsi addosso. Mi fa tristezza.
Penso a questo e anche al fatto che non sono poi così diverso da lui. Entrambi ci nascondiamo dietro a qualcosa di inconsistente come le parole. Come le battute. Come gli scherzi.
Come ombrelli di carta sotto la pioggia.

Ed eccoci in fondo.
Avete riso? Avete pianto? Avete sentito come tanti fagioli crescere nel marsupio di un canguro? Bene! Mi fa molto piacere.. che non possiate rispondere, intendo
Ebbene sì! Il protagonista di questa storiella (oltre a me) è Marino. Quello che i più avventurosi di voi trovano nella categoria degli aneddoti e con la TAmmaG “Educatore”.
Vi ricordo che ovviamente non si chiama Marino, ma per l’anonimato preferisco non scriverlo (visto che di tetraplegici non ce n’è molti a Genova). Ma passiamo all’osservazione del testo.
In realtà non c’è molto da dire che non sia già stato spiegato nel racconto stesso se non due cose:

1) Una delle cose che mi piace inserire in ogni contesto (personaggio, ambiente, situazione…) è la dualità. Gli opposti. Le due facce della medaglia. Ed essendo venuto ad abitarci in centro, apprezzo molto vedere ciò a/in Genova. Oltre che spiegarlo a parole ho voluto inserirlo celato in due punti. Il “camminare facilmente al sole tra gli universitari che ti scansano” e il “correre sobbalzando sulle piastrelle all’ombra serpeggiando fra le prostitute”. Vabbè, ma questa è abbastanza una cagata, no?
2) Ma quanto è figo il nome del racconto? Si, vabbé, fa un po’ melato che non è da me. Però dai! Troppo sballo.
Dopo l’osservazione accurata di quest’ultimo punto vi lascio ai commenti gioiosi di quanto bello fosse questo racconto (Eh già. Oggi sì. Mi faccio solo complimenti).

Tante belle cose e un rapido ciao che devo andare a prendere il treno!

Con un gusto decisamente meno forte vi posto le altre due avventure con Marino. Ma in queste non aspettatevi nulla di serio.

Ciò che si dice, ciò che si pensa:
https://sgargascrot.wordpress.com/2014/07/02/cio-che-si-dice-cio-che-si-pensa/

Morte certa:
https://sgargascrot.wordpress.com/2014/06/19/morte-certa/


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