Scrivere un racconto è facile, lo possono fare tutti.
Basta un foglio, una penna, una matita, un gessetto, un pennarello, o qualunque cosa si possa usare per scrivere. Serve un computer o un cellulare. Una scrivania, un tavolo, una sedia, uno sgabello, una superficie piana, o due, se vi piace sedervi su una superficie piana. Basta un po’ di caffè, un bicchiere d’acqua, una spremuta d’arancio, uno shottino di grappa, vodka, gin, vov o whiskey o qualunque cosa vi faccia carburare.
Basta tutto e niente per scrivere un racconto. Bene, benissimo direi. Ma è cosa facile. Chi non sa scrivere un racconto con queste cose?
Tutti! Tutti sanno scrivere un racconto perché – di per sé – non serve molto. Penso si sia capito.
Ma provate a immaginare di scrivere un racconto di un racconto.
Eh, tutt’altra cosa. Un’altro paio di maniche. Già parliamo di metaracconto. O qualcosa di simile. Non basta quello che abbiamo elencato finora, serve di più, un passo in più, un ragionamento in più. Per scrivere un racconto di un racconto devi raccontare di chi scrive il tuo racconto.
Prendiamo Gianni, che ha una vita ordinaria, fa l’impiegato, con una moglie e due figlie. No. Non mi piace, troppo canonico. Troppo classico, scontato, banale. Troppo troppo.
Prendiamo Gianni, che ha una vita ordinaria, fa l’impiegato con un marito(!) e due figlie… adottate. Gianni fa l’impiegato, e non ha stimoli. Ama suo marito, le sue figlie, la sua casa, ma vorrebbe – ha bisogno – di qualcosa che lo faccia evadere. Usa l’immaginazione e scrive un racconto. Ma di cosa può parlare questo racconto? Dell’omosessualità? No, troppo banale, troppo normale, troppo canonico e tutte quelle cose che abbiamo detto prima. Deve parlare di qualcosa di nuovo, di intraprendente, di avvincente. Qualcosa di NON banale.
Potrebbe parlare di un racconto. Perché pensa – Gianni, pensa – pensa che è facile raccontare di un racconto normale, basta poca roba e noi quella poca roba la conosciamo bene. Ne abbiamo parlato a inizio racconto.
Gianni vuole fare un racconto di un racconto e ce lo troviamo nel nostro racconto a raccontare qualcosa. E cosa racconta il racconto di Gianni?
Racconta di un uomo. Anzi no! Una donna. Una donna che potrebbe rispecchiare lui, come si sente, come si vuole. Una donna con una vita avventurosa, ma che ha bisogno di pace, di tranquillità, di riposo. Una donna intrepida, ma anche riflessiva. Una donna con qualcosa da dire. Una donna che si chiama, Sara.
Sarà che Sara ha perso le speranze di trovare marito – o moglie – sarà che Sara ormai comincia ad avvicinarsi alla cinquantina. Sarà che Sara non ne può più di “uccidi quello” e “salva quell’altro”. Sarà per tutte queste cose, ma Sara decide di scrivere un racconto. Non è una gran sorpresa perché Gianni lo aveva già deciso che il suo racconto avrebbe trattato di un racconto. Quindi Sara scrive un racconto. Ma su cosa? Cosa potrebbe mai raccontare una donna quasi sulla cinquantina, avventurosa, ma riflessiva?
Non vi sorprenderà sapere che vuole scrivere un racconto di un racconto. È abbastanza scontato, vedendo questa catena – che temete infinita – di racconti. Inizierete anche a chiedervi quando finirà? Dove porterà in conclusione? Ci sarà una battuta? Dovrà far ridere in conclusione o forse porta a una riflessione più profonda?
Comunque, dicevamo che Sara ha deciso di scrivere un racconto, ed è inutile girare attorno al fatto che volesse qualcosa di più profondo, che la rispecchi e blablabla. Insomma vuole scrivere un racconto di un racconto e parla di Sindy che è una bambina, australiana, a cui piacciono i canguri – ovviamente, è australiana – ma una bambina matura per la sua età che vede le cose come né adulti né bambini vedono, e scrive un racconto, e sarà che Sara sa che cosa farà Sindy, ma non si sorprende che la bambina – Sindy – vuole scrivere un racconto di un racconto che ha per protagonista un canguro – pensa – che però non salta, o meglio, salta sì, ma non solo, perché parla, anche, e – udite udite – scrive. Che cosa? Racconti. Di che cosa? Scrive racconti di racconti. Racconti di chi? Racconti di gente che scrive racconti di racconti che raccontano di racconti raccontati da altri racconti. Racconti di persone come Artur, Bibo, Zerinol, Fidel, Malcom, Cactus, Lallo, Tokk, Gengin, Tulio, Pitol, Flaffy, Meganot, Ciccio, il sergente Rambol e molti molti molti altri ancora. E uno parla di come i racconti degli altri raccontino dei suoi racconti. Uno racconta del racconto in cui lui stesso si trova. Un’altra racconta che finge di raccontare, in realtà non sta raccontando nulla. Altri invece raccontano al contrario il loro stesso racconto, di cui non si capisce niente.
Quanti racconti. Quanta confusione, dispersione, giramento di… testa. Quante cose inutili in un racconto, che non portano ad alcun ché. “Perché mai dovrei subire questo supplizio, farmi torturare cercando di seguire il nesso di questa follia”, ti sarai chiesto, prima o dopo, o forse te lo stai chiedendo proprio ora. E non avreste tutti i torti e ti chiedo un ultimo, piccolissimo, sforzo. Torniamo indietro con lo sguardo o con la memoria, torniamo indietro a quando ti domandavi a cosa avrebbe portato tutto ciò. Ricordi?
Cominciavi a chiederti quando finirà? Dove porterà in conclusione? Ci sarà una battuta? Dovrà far ridere in qualche modo, o forse porta a una riflessione più profonda?
Esatto erano proprio queste le domande che ti domandasti. E la risposta l’ho io fra queste righe sole. Soltanto queste che seguono.
E la risposta è: non lo so. Non lo so cosa mi abbia portato a questo scompiglio grammaticale, lessicale, calligrafale. Non lo so. So solo che mi chiedo perché? Mi pento e mi ripeto e mi richiedo – come te, probabilmente – perché? Perché tutto questo? Perché è cominciato? Perché non rimanere a letto e non alzarmi più?
Non è un racconto quello che sto scrivendo, tanto meno un racconto di un racconto. Tanto meno un racconto di un racconto di un racconto. Tanto meno un racconto… hai capito. È solo una tortura, una frenesia di parole, una sabotaggio della lingua, una cacofonia di frasi contorte, che dunque – in qualche modo – ora devo finire, concludere, terminare. Ma risulta difficile perché non c’è fine. Se non il continuare, andare avanti, ma avanti c’è solo l’incognita. L’ignoto. L’infinito. Tutto ciò che è chiaro è solo l’inizio.
Ho trovato, ci sono, proveremo a far la strada a ritroso, al contrario, per vedere dove tutto ciò è nato, cresciuto, ma mai morto. Tipo di quel canguro – lo ricordi? – che salta, parla e scrive una serie di racconti assurdi di cui è meglio non ricordare. Il canguro era scritto da una bambina australiana, Sindy – Si! Sindy – che capisce cose che né adulti né bambini capiscono, no!, vedono. Una bambina particolare, oltre che australiana, che veniva descritta da, da, da, Sara! Esatto, giusto, Sara. Donna quasi sulla cinquantina che ha perso le speranza di trovare moglie – o marito – che prima di lavoro faceva qualcosa che noi non ci saremmo mai sognati di fare. Avventurosa questa donna, intrepida, che rispecchia in tutto e per tutto il bisogno di Giovanni. E Giovanni era rimasto orfano ed era stato lui a uccidere la moglie. No. Aspetta, mi confondo. Qualcosa non torna.
Che bisogno aveva Giovanni di sentirsi come Sara? No, infatti. Sara era l’opposto di chi la descrive, una persona tranquilla, pacata, monotona. Banale. Con due figlie adottate, un marito e un lavoro da impiegato.
Gianni! Eccolo, il nostro inizio, il nostro tutto. Il paziente zero. Abbiamo finito? No. Non ci mentiamo, non ci inganniamo, non cerchiamo di non fare i furbi, cioè, no. Cerchiamo di fare i furbi. Nemmeno.
Cerchiamo di NON fare i furbi. TU cerca di non fare il furbo. Sappiamo tutti che Gianni non si è scritto da solo, non si è auto-creato, non ha scelto di inchiostrarsi nella fantasia con un salto spinto dall’iniziativa. Tu – dicevo – tu, non fare il furbo. Non tu che leggi, che centri? Non ti agitare. Ma tu, Gimmi. Sì, tu Gimmi. Non Gianni. Non Giovanni. Ma Gimmi. Tu che hai dato inizio a questo scempio e ora non sai come porne fine. Lo si vede, lo si capisce, da come continui perenne, perpetuo, permane questo sbobinamento letterale. Questo snocciolamento concettuale. In questo turbinio ti aiuto io, da qua dentro, da narratore – tuo amico, fraterno fratello, consono consigliere, generico generale, dittalitagrifo dittatore – ti dico, ti ordino ora, subito, con calma fermezza, con spietata gentilezza, strana pacatezza:
smetti
di
scrivere