Ieri sera è successa una cosa strana. Incredibile, azzarderei.
Dopo in quarto anno di teatro – come a ogni fine anno – da buoni scolaretti abbiamo fatto il saggio. Per quanto le frasi come “Vabbé, dai, è solo un saggio, che cazzo te ne frega?” oppure “Non ti preoccupare, la gente di solito dorme e poi ti dicono che sei stato bravo comunque” risuonino di volta in volta nella testa, il saggio rimane comunque parte dignitosa del percorso e l’agitazione è sempre stata presente.
Parentesi: il concetto di dignitoso è sempre relativo, perché saltavo e simulavo nei gesti e versi una foca, ma con orecchie da asino. Licenze teatral-poetiche, immagino.
Dicevo… l’agitazione costante di ogni volta che si sale su un palco.
Non questa volta. Non ieri sera. La mattina, il pomeriggio, poco prima di entrare in scena, durante e dopo… zero.
C’è stata giusto un po’ di fermento la mattina appena sveglio – che non te lo sto neanche a dire che mi ha portato a quel del gabinetto -, ma dopo nulla più.
Devi capire che l’ansia, l’agitazione, è ciò che ti ancora sul pezzo. Che non ti fa dire che andrà tutto bene, ma piuttosto: Gimmi, ora ascoltami attentamente, non sbagliare una battuta, un’entrata, un solo dannatissimo attacco, altrimenti vivrai con la consapevolezza che la gente non potrà guardarti più negli occhi e finirai a vendere pesce in Valtellina. Fare questo genere di pensieri, per qualche ragione, aiuta a non sconcentrarsi.
Ma come prima dicevo, nulla.
Questa cosa ha cominciato ad agitarmi “razionalmente”, senza sentire cuore e intestino invertiti, per il semplice fatto che l’ultima volta che non ho provato sensazioni simili è stato al mio secondo open mic. L’esperienza più glaciale e terrificante della mia vita… che non ricordo se ho raccontato, ma che – al limite – ti racconterò.
Non volevo assolutamente ripetere l’esperienza. Così ho cominciato a cercare di autosuggestionarmi.
Un coglione.
Sono un tipo ipercinetico e cammino praticamente sempre avanti e indietro, ma in quel momento sarei rimasto volentieri seduto. Mi son detto, no! Tu ora ti fai dieci chilometri per gamba! Andando avanti e indietro mi ripetevo che sarebbe andata male. Che mi sarei dimenticato una battuta. Ogni tanto sbirciavo dal sipario. Guarda quante persone! Tutte che penseranno male. E allora di nuovo avanti e indietro, avanti e indietro. E se poi faccio scena muta? E se brucio una parte fondamentale? Se mi cadessero i pantaloni, facendomi inciampare, e battessi la testa lasciandomi paralizzato in mutande mentre il pubblico ride di me?!
…
Forse questo sarebbe un po’ troppo.
Ma niente.
Tranquillo. Calmo. In bolla. Nella mia testa tutto sarebbe andato bene e se qualcosa fosse andato storto sarei stato in grado di rimediare.
Era la fine.
Quando il nostro insegnante ha cominciato a introdurre quello che saremmo andati a fare oramai mi ero rassegnato. La fine di un’esistenza. Salutate mia madre, ditele che le ho voluto bene. Salutate i miei figli e dite loro che mi scuso per non essere stato molto presente… e che però se anche loro fossero nati sarebbe stato di aiuto, quindi facciamo un cinquanta e cinquanta.
Luci.
Sipario.
Si va in scena.
…
Non sbaglio nulla. Entro giusto. Pieno di energie, faccio la mia parte.
E in un attimo, fine.
Tutto ciò mi lascia due sensazioni contrastanti:
La prima, è che non è detto che debba essere ansiato per fare bene. Mi è parso di avere acquisito una sorta di maturità.
La seconda, è che ho provato ben poco e questo mi ha lasciato un po’… insoddisfatto. Ricordo le scariche di adrenalina dei vecchi saggi, l’allegria, l’eccitamento.
Ho pensato:
Sono stato solo bravo.