In fin dei conti, sono una persona semplice.
Quando ho caldo dico “c’è caldo” e quando ho freddo dico “c’è freddo”. Penso sia una cosa normale da fare, anche senza una spiegazione concreta. Se si ha caldo si esordisce dicendo che la temperatura è elevata in quel preciso momento. Non che le altre persone non sentano quello che senti tu (o io in questo caso). Ma è usanza dirlo a voce alta.
Dunque, l’altro giorno, mi chiedevo l’utilità di questo rito che abbiamo pressoché tutti in comune.
Aggiungendo il dettaglio che quando si ha caldo e si dice “c’è caldo” non lo si fa come constatazione – allora sì che sarebbe davvero inutile – ma come lamentela. Come corvo rauco, sopra le nostre teste, scende e picchia per farci dire “c’è freddo”. Altri due volteggi sulla testa e poi un’altra imbeccata “c’è sempre freddo”.
Colpo dopo colpo, sorprendentemente, le cose non cambiano. Rimane freddo (o caldo).
Mi domando quindi se è frutto di un popolo molle dinanzi le intemperie, o a qualunque altra fatica del destino, o se ha uno scopo più recondito e celato. Dato che, l’usanza vuole, che non pronunciamo solo le parole “c’è freddo” o c’è caldo”, ma: “Cazzo che freddo” e “Che minchia di caldo”.
Al di là della concentrazione fallica di queste esclamazioni – che per i più amanti del femminismo potremmo trasformare in un poroso milanese “figa, che…” – potrebbe starci dietro qualcosa di più grande che una constatazione condita da lamentela.
Potrebbe servire forse a sopportare meglio quanto subito?
Potrebbe forse aiutarci a fare quel passo in più immersi nelle temperatura ostile?
Fa smuovere al nostro interno meccanismi subconsci che permettono l’equilibrio termino del nostro organismo?
Personalmente non ne ho idea.
Penso solo che ogni volta che declamo qualcosa riguardo il clima, chi mi accompagna mi voglia – di volta in volta – un po’ più morto.
P.S: Non so esattamente cosa abbia scritto o perché, in questo articolo. Però, oh. Va così.