Persepolis: e le tre storie.

L’ultima recensione della stagione prima di agosto (anche se oggi è il cinque agosto, ma io pianifico l’articolo per giugno e nessuno si fa male grazie alla mia incredibile astuzia che fece ingelosire Barbero. Ma questa è un’altra storia e sto già dicendo troppe cagate già nelle prime tre righe).

Persepolis è quella che possiamo definire tranquillamente graphic journalism e mi fa strano che non ci siamo ancora incappati in questo modesto spazio di bricconcellate.
In quanto “giornalismo” non posso essere il classico spacca manzi che cerca il pelo nell’uovo e abbattere la trama. Sarebbe come lamentarsi con un giocatore di dama che non usa il cavallo per mangiare il pedone. O inveire contro un tennista perché non usa il cavallo per mangiare il pedone. Oppure lamentarsi contro un… vabbè, la battuta è sempre la stessa.

Marajane Satrapi descrive a vignette la sua infanzia e adolescenza, prendendo degli eventi significativi della sua vita che mi sento di definire semplicemente traumatici.
La roba strana è che lo fa con una – passami il termine – superficialità disarmante. Ti chiedo di passarmi il termine perché penso sia in qualche modo efficace per restituire la situazione pesante vissuta per anni. Non parlo solo dei suoi problemi personali, ma proprio per il quadro geopolitico di quegli anni tra Iran e Iraq.

Pesante da assimilare, imparare, comprendere per me che sono un occidentale che a scuola studiava storia con la stessa passione con cui faceva scacco matto a tennis.
Nella mia mente è un contesto talmente indefinito che ammetto non mi sia chiarissimo nemmeno ora, nonostante il racconto dell’autrice. L’ignoranza mi si arrampica come macaca radiata sulle spalle?
Si.

Sta di fatto che non sono mai stato portato per le storie vere, ma solo quelle di finzione.
Quindi ritornerei sui drammi che lei vive, le esperienze paradossali e sullo strano effetto che esse riportano nel petto (almeno nel mio). Che sono principalmente due:

Il primo strano effetto è – come accennato pocanzi – il leggere un fumetto che sorvola velocemente sui fatti sconvolgenti, raccontandoli con semplicità. Morti, guerre, droghe, depressione, solitudine e quant’altro sono presenti, ma “leggeri”. Ogni tanto mi riprendevo e pensavo: “Cazzo, ma questa non è finzione! Io probabilmente, a quel punto, avrei scelto semplicemente di scoreggiare via dalla mia vita”.

La seconda è il vedere – sentire – la trasformazione emotiva che si prova sfogliandolo.
Hai presente quando inizi a leggere, per esempio, Harry Potter e arrivi al settimo volume in cui scopri che è morta la tua voglia di leggerne ancora? Ecco – a parte la mia sottile critica al libro – quando si è alla fine si guarda indietro e si sente una forma di nostalgia. Si riconosce che le sensazioni che si provavano all’inizio, nel primo, sono diverse dalla fine, nell’ultimo.
Ecco! Questo è sintomo di una trasformazione graduale (se fatta bene) che avviene nelle storie, tendenzialmente lunghe. In Persepolis capita almeno due volte – quindi con tre sensazioni diverse – nell’arco di trecento tavole.

Io lo trovo affascinante.
Ovviamente quest’ultimo aspetto è dato da fatto che si vede crescere la protagonista/autrice e il mood cambia per forza. Ma è un po’ come leggere tre storie diverse con tre personaggi diversi… e forse è un po’ così.

Per concludere!
In quanto graphic journalism non me lo sentire di consigliare come altro fumetto qualunque. Però se ti capitasse di averlo sottomano, io lo leggerei. Qualcosa da imparare all’interno lo si trova.

Ciao e ci rivediamo a settembre!


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