La felicità in quattro parole.

Ciao!
Oggi per cominciare, ti dirò cinque parole che descrivono questo articolo: chi, cazzo, meloha, fatto, fare?

Vabbè, dai. Sono partito pesante, ma alla fine non è così grave la situa.
Riproviamo: rewind!

?araf ,ottaf ,aholem, ozzac ,ihc : olocitra otseuq onovircsed ehc elorap euqnic òrid it, eraicnimoc rep iggO
!oiaC

Play.

Ciao!
Ho accettato un lavoro da proofreader. Se sei come me – che un anno fa eri abbastanza ignorante a riguardo tanto da pronunciarlo male e invece che prufrider dicevi prufraider (“cavalcatore di prova”) – allora grande! Ti sembrerà che abbia accettato un lavoro fiero che mi ripaga di tutti questi anni di duro lavoro e ti direi di non andare a googlarlo che tanto ti fidi di me, no?
Se al contrario hai idea di cosa comporta questo “decisamente non palloso” lavoro allora ti chiederei di non scriverlo nei commenti e lasciare un’aurea di gloria. Anche per soli pochi minuto. Giusto per aver la sensazione di aver fatto qualcosa di bello nella vita.



(A questo punto immagino che sia già stato ampiamente googlato).

Non che il correttore di bozze sia un lavoro ignobile. Va fatto ed è molto utile.
E quando mi hanno chiesto lavorare su un manuale di un gioco di ruolo mi ha fatto anche piacere accettare. Difatti non parleremo del lavoro in sé, e delle ore passate a leggere duecentosettanta pagine con sorprendentemente poche immagini per un gioco di ruolo. NO!

Ma che per queste giornate trascorse dietro uno schermo mi vengono pagate cento euro.
“Grande Gimmi! Un centone solo per leggere un figo gioco di ruoDUCENTOSETTANTA PAGINE!

Non biasimo i ragazzi.
Loro mi hanno fatto una proposta e io accettato. E ne sono contento, pure!
Non ho mai fatto questo genere di lavoro e volevo vedere come fosse (e assolutamente non perché non ho più un euro e quei soldi mi fanno mangiare un altro mese).

Il discorso è – tolto l’aspetto nuova esperienza che, vabbé, sappiamo com’è l’antifona – saper accettare lavori pagati per quanto si valga. Eh? Hai anche tu questo problemino?
“Senti scusa, ci sarebbe da tradurre dal latino un tomo antico di millequattrocento pagine e trarne una fiaba musicata di massimo quindici, per bambini dai tre ai sei anni, componendo una melodia originale con sedici strumenti e recitarla suonando a un evento con cinquecento persone paganti. Accetteresti per settantacinque centesimi l’ora e mezza nocciolina?”
“Certo!”

Cazzo!
E io che pensavo di aver imparato nei miei anni da educatore l’antica e sacra regola per questi casi. Tramandata da monaco a monaco partendo da Monaco a Monaco (di Baviera. Questa era brutta, ma ehi! Non posso avere idee frizzantine come scrivere al contrario per fare rewind ogni volta, sai?).
La santissima e purissima e levissima regola del devo un attimo capire.

Se non sai di cosa stia parlando ti svelerò questa deliziosa tecnica – anche se non hai un saio o stai passeggiando in un principato. Quando mi telefonavano per chiedermi se potevo accettare un nuovo disabile da seguire e fare più ore – soprattutto quando stavo cercando di ridurle perché volevo licenziarmi – il dispiacere di lasciare nella bratta altre persone era alto, nonostante sapessi che ciò avrebbe comportato: fatica, frustrazione e lavorare male con quello e tutti gli altri casi.
Quindi la scena era pressoché questa:

Rispondo al telefono.
“Che giorno sarebbe? Ok. Quante ore? Mhmm. Bene. Allora, sarei interessato, però ti direi se ci sentiamo in fine giornata. Così guardo di non avere altri impegni che devo un attimo capire.”
Le due ore successive le passavo a fare auto-training ripentendo: “dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no dì di no”.
Il giorno dopo richiamavo.
“Guaaaaaarda, vorrei, ma non mi ricordavo che, prossima settimana, mi inizia un corso già pagato di lettura degli oracoli sulla schiena degli anziani, mi dispiace.”

Se mi sentivo una merda?
No! Ragazzi, qui si tratta di sopravvivenza.

Per tornare a noi – e direi che chiudo che si va per le lunghe – devo ricordarmi di trascinarmi dietro, anche nel mondo editoriale, questa via per la felicità di cui ti faccio dono. Ma mi raccomando!
Non utilizzare quella della schiena degli anziani che è mia!

Cia’.




2 risposte a "La felicità in quattro parole."

  1. Massima stima per i correttori di bozze. Ho lavorato per 10 anni in una casa editrice e ho fatto anche quello. Facevo un po’ di tutto, ovviamente sottopagata e sfruttata al massimo, ma tant’è. I soldi servono, l’esperienza pure. Amen. 😁

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