Non so…
Per qualche ragione mi dispiace dirti che non mi è piaciuto (e bam! partiamo col botto).
Scirocco aveva apparentemente tutte le carte in regola per essere una di quelle graphic novel in cui ci vado a bagno: titolo di una parola sola; palette di tre colori molto intimista; pubblicato dalla Bao.
Eh, e invece…
Da cosa partiamo?
Ci sono rimasto male e penso sia dovuto al fatto che mi è stato consigliato caldamente. “In che zenzo?”
Nel zenzo che mi pare proprio il prodotto fatto per far abboccare tutte quelle persone che amano questo genere di storie, pasticciandoci dentro quella manciata di elementi al sapore di Blankets (consigliato). Ammetto anche che non ho chiare le idee del perché non mi sia piaciuto, ma ora vediamo di fare chiarezza insieme.
Partendo dalla trama.
Abbiamo una ragazza che vuole diventare ballerina, un padre omosessuale che ha rinunciato al romanticismo e una nonna (mamma del padre) alla ricerca di una vitalità perduta. Elementi interessanti. Ma trovo osticità nel come sono miscelati. Lasciando da parte il padre… pare che la ragazza sia la protagonista. La vediamo impegnarsi nella danza, ma poi – zan zan zaaaaan – la nonna sparisce. E noi, come lettori e lettrici onniscienti seguiamo la ricerca della nipote e le carrambate della nonna, alternando le vicende di una e dell’altra. Ma è molto più interessante la storia della nonna: che ammetto si salva. Molto accattivante per il tema trattato.
Una storia, quindi, a più protagoniste?
Se così fosse, temo sia gestito male.
Sarebbe stato più coinvolgente seguire la nonna in tutti i suoi dilemmi (che non sto a spoilerare). Perché le ambizioni della ragazza nella danza vengono dimenticate per l’ottanta percento del fumetto. E porca pupazzolina, non me la puoi mettere in copertina che volteggia su Venezia se poi non mi centra con la storia.
Boh, sarò io scemo a non apprezzare(?).
Se posso mettere una punta di acido in questa recensione: vogliamo parlare dello Scirocco?
Non come titolo del fumetto, ma come nome del bar (del padre) e di ‘sto belin di vento che “oh spazza via tutte cose e non mi ricordo cosa dicono parlando del vento, ma lo dicono spesso perché, oh lo scirocco spazza via tutte cose”. Anche a me piace molto il simbolismo e lo inserisco in quasi ogni cosa che scrivo. Ma va dosato, centellinato. Giulio (Macaione) -l’autore, se non si fosse capito – ti schiaffeggia armato di questa parola e usando il concetto del vento che non porta a nulla. “Ma il simbolismo non porta a nulla, caro Gimmi merda”.
Vero! Ma serve alla comprensione della trama, guidandoti attraverso un piano emotivo-sentimentale. Va usato bene e con discrezione. E non “Aaaaah, questo Scirocco oggi fa proprio le bizze, porcaccia la miseriaccia”. Anche perché, il solo fatto che io, ora, qui, non ti sappia dire che simboli simboleggia questo Scirocco la dice lunga. Potrei non averlo capito, ma non lo prendo comunque come punto a suo favore.
Mi stai seguendo?
Probabilmente no. Se ti capitasse di leggerlo, fammi sapere se sei d’accordo.
Nel frattempo, passiamo a un’altra cosa. I colori. Sarà che inizio a essere saturo, ma lo sto trovando in troppe graphic novel, la scelta di dividere i capitoli usando un colore dominante differente (ultimo tra questi, Non è te che aspettavo). Non è che abbia nulla in contrario con questa scelta, ma già che si usa dovrebbe avere una motivazione in campo dello storytelling (io credo).
E subito mi si può dire che “banana, Gimmi, i colori sono divisi per area geografica”. Perché mentre sono a Venezia il contesto è blu e in Sicilia è giallo (e poi alla fine c’è un violetto che, boh, forse è una specie di misto?). E può starci. Personalmente lo trovo un po’ semplice come scelta e avrei preferito – dato i toni della storia – tutto sul blu che ci attrae, portandoci emotivamente più vicini, e non ci brucia la retina come il giallo.
Ma quello che mi ha infastidito, lì per lì senza che me ne accorgessi, è che – dopo essere passati al giallo e far vedere la nonna in Sicilia – si torna per qualche tavola a Venezia, dalla ragazza e suo padre, preoccupati per la nonna, sempre in giallo. Capisco che fare di nuovo, per poche tavole, un cambio di colori così drastico sarebbe stato un pugno nell’occhio, nello stomaco e nel cuore; ma lo trovo comunque sbagliato. Strutturalmente sbagliato. E, a me come lettore, lo avverto e mi scombussola la lettura. Mi racconti un’emotività preoccupata di due persone con un giallo acceso, usato per una Sicilia in cui la nonna sta ritrovando la sua serenità.
Nope.
Ammazza quanto ho scritto, non pensavo.
Per concludere, io non lo consiglierei come lettura. Sono i soliti venti euro che vengono spesi per un qualcosa che non arriva davvero in fondo. Essere autori unici ha questa peculiarità, troppo spesso. Non sentire davvero la trama e puntare tutto sull’estetica della scena e delle situazioni. (Convincete, per favore, i disegnatori a seguire una buona sceneggiatura). Ma se lo avessi letto e hai delle opinioni contrastanti, sarei felice di mettermi in dubbio e cambiare idea.
Detto questo detto tutto, Caru miu.
Ci ritroviamo (spero) lunedì!
Ciau.