Pupù

Buondì!
Oggi il sonno è attaccato alle palpebre come vernice secca. Temo dunque per la riuscita di questo articolo, che possa essere mollo. Per ovviare a questo problema ti racconto un accaduto in precedenza annunciato. Mi è molto più facile perché l’ho già scritto più e più volte, ad amiche e amici per via messaggiosa, e non mi devo sforzare per trovare colorite immagini.

Aggiungo una premessa, perché oramai sono vicino ai trenta e ciò mi fa sentire maturo e conscio delle mie responsabilità: parlo di pupù (come la chiami tu, Stefano, che so che ti piace chiamarla pupù e ne capisco il motivo dettato dalla delicatezza, trattando un argomento così sporco).
Quindi, se questo argomento ti turba in qualche modo, mi dispiace. Puoi non leggerlo, ma è inutile che ci giriamo attorno. Tutti la facciamo ed è giusto discuterne, riflettersi e raccontarci buffi aneddoti sopra. E sì… anche le donne fanno la pupù – sentito come la uso frequentemente la parola pupù, Stefano? -, ma ti dirò di più! Anche gli animali, gli insetti e gli dei la fanno – perché mi rifiuto che con tutto quello che ingollava Bacco non dovesse poi andare a farla.
E quindi eccola, la mia intima e personale storia sulla… pupù *occhiolino a Stefano*.

Non ho mai avuto un’intolleranza, ma a quanto pare non serve per rischiare di cagarti addosso dopo giorni di stitichezza e una focaccia al formaggio. Crescere vuol dire anche questo: pensare che forse, prima di andare a lavoro dopo giorni di stitichezza, una focaccia al formaggio non sia la cosa ideale. Sono un uomo maturo.
Il prossimo passo sarà, non solo pensarci ma anche non mangiarla.

Abbiamo capito che era un giorno dopo giorni di stitichezza, una focaccia al formaggio nello stomaco, e un pomeriggio da educatore. Stavo camminando insieme al ragazzone che seguivo (di cui ti parlerò quando deciderò di pubblicare le altre parti dei #Momenti Educativi) e le prime gocce ghiacciate di sudore mi scolpivano la fronte, solcando la strada per pensieri, tipo: “Che cazzo di coglione sono a mangiarmi una focaccia al formaggio dopo giorni di stitichezza…” abbiamo capito.

Per aggiungere una punta di dramma alla situazione, vorrei che ricordarti che siamo in mezzo a una pandemia. Generalmente risolvevo questo problema chiudendomi per qualche scoppiettante minuto nel gabinetto del bar di fiducia, a evacuare delle badilate e badilate – munito di galosce – di interminabile e violenta… pupù. *Occhiolino*
Ma i bar fanno solo d’asporto e i bagni sono chiusi.

Siccome il ragazzone che tenevo abita verso l’entroterra, in uno degli estremi della città, le nostre passeggiate portano all’estremo dell’estremo. Ed è proprio al capolinea di questo viaggio con premesse diaboliche che Lucifero decide di bussare alle porte del mio retto (verso l’esterno, s’intende).

Puoi capire la situazione.
Sperduto, senza un bagno con il male che cresce dentro, a lavoro con un disabile appresso – oltre a pensare che la prossima volta prenderò l’insalata – ti senti un po’ a disagio, sapendo che non puoi abbandonare il tuo protetto.
Ma qui si tratta di sopravvivenza! Fare altre due ore, senza un cambio e un fagotto di… pupù… nei pantaloni sarebbe stato inaccettabile (oltre che umiliante, degradante e poco professionale). Opto per l’unica cosa sensata da fare: nascondermi tra i cespugli laggiù e fare birdwatching al ragazzone mentre prego Bacco perché nulla vada storto.
Ed è quello che faccio.

Prendo il distrattore acustico – smartphone – lo attivo con il giusto programma – Spotify – e avvio l’ipnotico risucchio d’attenzione corretto per questi casi – Ligabue. Con il ragazzone distratto, scatto verso quella specie di boschetto correndo come un macaco che si sta per cagare addosso; sfrutto la panchina per scavalcare il muretto e – scommetto che ho tutta la tua attenzione per l’adrenalina che ti ho instillato – e, dicevo, mi mimetizzo come un marines in Vietnam. Accertato della buona visuale verso il mondo che continua e – soprattutto – verso il ragazzone, mi calo la braga pronto a far fuoco (in tutti i sensi).
Non devo neanche sforzare. Per renderti un’immagine, pensa all’ultimo giorno di scuola alla elementari appena suona la campanella di uscita. Però ciò che esce non sono graziosi pargoli e potrebbe uccidere un vampiro. Lungo come il mio avambraccio e – se quello che si dice sulle proporzioni del corpo umano sono corrette – io di piede ho il quarantacinque. Nello sforzo, come un vero veterano, faccio attenzione che lo sforzo di reni non porti un disagio anche nella parte frontale, dirigendo preventivamente il getto d’urina verso il basso – mica sono scemo. Lancio tutto quello quello che riesco, più in fretta che posso, sudando umido, temendo la vista del passante occasionale.
Finito quella guerriglia infernale, estraggo due fazzoletti, ultimi rimasti. Una scarsa risorsa, ma sufficiente.

Ritorno dal mio protetto con l’andatura di un babbuino che non vuole parlare con nessuno, se non il proprio psicoterapeuta. Il disagio mi avvolge come un piumone a ferragosto. Il ragazzone mi guarda, dice qualcosa sui bisogni ma voglio solo dimenticare. Tutto è finito, penso, non voglio ripetere mai più questa esperienza extracorporea.

Ma non c’è bisogno di dire molto altro. Tutti sappiamo cosa succede quando togli il tappo.
Non passano neanche cinque minuti che mi ricordo che durante il Covid le scuole fanne le uscite a scaglioni, e che il peggio deve ancora venire.

Ripeto tutto come prima: distrattore, scatto verso il boschetto, andatura da babbuino, panchi… un senzatetto staziona all’interno della mia area d’azione. Panico. Continuo a camminare disinvolto e ondeggiante come qualunque babbuino sa fare, e avanzo alla ricerca di un’altra zona che possa salvarmi. La trovo, più esposta, ma qui si tratta di vita o di morte (per la mia dignità). Cerco un punto di – non proprio – buona visuale, calo le braghe e spingo frenetico quello che covo. Un omogeneizzato di pollo. Nell’azione frettolosa non presto troppa attenzione al getto, pocanzi tanto diligentemente diretto. Lo spruzzo centra la mutanda. Ma se vogliamo scendere ancora più in basso nei meandri del patetico, non lo interrompo perché nessuno doveva vedere che dal mio corpo-betoniera stava fuoriuscendo della straziante… pupù.
Con oramai la rugiada nei capelli, realizzo la più atroce delle verità: non ho fazzoletti. E faccio quello per cui spero di venir perdonato durante il giorno del giudizio. Trovo fazzoletti che reputo “puliti”, sparsi davanti a me, reduci dei giorni di pioggia passata. Li uso per l’ignobile pulizia, convito che mi verrà lo scorbuto all’ano.
Ho finito.

Ritorno dal ragazzone.
Non provo nemmeno a cercare immagini per descrivere il mio stato psico-emotivo. Gli dico semplicemente “andiamo” e, nonostante le sue lamentele, lo riporto a casa per trovare un minimo di sollievo nel bidet del suo bagno.

La morale di questa storia è che…
La verità è che non c’è morale in questa storia.
Solo una vagonata di…
merda.


2 risposte a "Pupù"

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